LA LIBERTÀ DI STAMPA - G. Orwell - L'etichetta marxista è in contraddizione col pensiero orwelliano
LA
LIBERTÀ DI STAMPA
di
George Orwell
L’idea
centrale di questo libro risale al 1937, ma la sua stesura ha avuto
luogo verso la fine del 1943. Nel momento in cui è stato finalmente
ultimato, è apparso chiaro che (nonostante l’attuale scarsità di
letture sia una garanzia che tutto ciò che può essere definito
«libro» è suscettibile di vendere) sarebbe stato molto difficile
farlo pubblicare. In effetti è stato rifiutato da quattro editori,
solo uno dei quali aveva motivazioni ideologiche; due pubblicavano da
anni libri antisovietici, mentre il quarto non aveva un orientamento
politico identificabile. Inizialmente, a dire il vero, un editore
aveva accettato il libro; ma dopo le intese preliminari aveva deciso
di consultare il ministero dell’Informazione,
che pare gli abbia intimato, o comunque consigliato energicamente, di
non pubblicarlo. Ecco un estratto della lettera che l’editore mi
scrisse: […] Ho già detto della reazione di un importante
funzionario del ministero dell’Informazione a proposito de La
fattoria degli animali.
Debbo confessare che i termini in cui tale opinione era espressa mi
hanno dato seriamente da pensare. […] adesso mi rendo conto che la
pubblicazione del libro in un momento come questo potrebbe essere
considerata un gesto oltremodo incauto. Se
la favola si riferisse ai dittatori e alla dittatura in generale
sarebbe un bene pubblicarla; ora però ho capito che la storia segue
lo sviluppo dei Soviet e dei due dittatori russi in modo tanto
accurato da risultare applicabile soltanto alla Russia, escludendo le
altre dittature.
E poi sarebbe meno offensivo se la casta dominante non fosse quella
dei maiali. Credo che la scelta dei maiali come classe dirigente
offenderà senz’altro molte persone, in particolare quelle un
po’suscettibili, e i russi indubbiamente lo sono. Episodi come
questo non sono un buon sintomo. Ovviamente non è desiderabile
(sempre che non ci siano motivi di sicurezza, cosa a cui nessuno
obietterebbe in tempo di guerra) che un ministero governativo abbia
un qualche potere di censura su libri che non siano finanziati dal
governo stesso. Ma in questo momento il maggior pericolo per la
libertà di pensiero e di parola non è l’interferenza diretta del
ministero dell’Informazione o di altri organismi ufficiali. Se
editori e direttori si impongono di escludere dalle loro
pubblicazioni determinati argomenti, non è perché abbiano paura dei
processi, ma perché hanno paura dell’opinione pubblica. Nel nostro
Paese il peggior nemico che uno scrittore o un giornalista si trova
ad affrontare è la vigliaccheria intellettuale, e non mi pare che il
fatto sia stato dibattuto come merita. Chiunque sia imparziale e
abbia esperienze di giornalismo riconoscerà che nel corso di questa
guerra la censura ufficiale
non
è stata particolarmente molesta. Non ci hanno sottoposto a quel tipo
di «coordinamento» totalitario che potevamo ragionevolmente
attenderci. La stampa avrebbe qualche giustificabile rimostranza da
fare, ma nel complesso il governo si è comportato bene e ha
tollerato in modo sorprendente le opinioni di minoranza.
L’aspetto
sinistro della censura letteraria in Inghilterra è che si tratta di
un fenomeno in buona parte spontaneo. E’ possibile ridurre al
silenzio le idee impopolari e tenere nascosti i fatti scomodi senza
alcun bisogno di veti ufficiali. Chi ha vissuto a lungo all’estero
sarà al corrente di casi in cui notizie sensazionali, che di per sé
meriterebbero titoli a caratteri cubitali, sono state del tutto
ignorate dalla stampa britannica non per intervento del governo ma
per un tacito accordo generale secondo cui «non stava bene»
menzionare quei particolari avvenimenti.
Se si parla di quotidiani, è facile capirne il motivo: - la stampa
britannica, estremamente centralizzata, appartiene in gran parte a
persone ricche - che hanno tutte le ragioni per comportarsi in modo
disonesto su certi argomenti importanti. Ma lo stesso tipo di censura
occulta si applica anche a libri e periodici, oltre che al teatro, al
cinema, alla radio. In qualsiasi momento esiste un’ortodossia, un
complesso di idee che si presume debbano essere accettate senza
obiezioni da chiunque la pensi correttamente. Non che sia
precisamente vietato dire questa o quella cosa, però «non
sta bene»
dirla, proprio come nel periodo vittoriano «non
stava bene»
menzionare i pantaloni in presenza di una signora. Chiunque
sfidi l’ortodossia dominante viene ridotto al silenzio con
sorprendente efficacia. Le opinioni autenticamente anticonformiste
non trovano quasi mai spazio sulla stampa popolare quanto sulle
riviste intellettuali. L’ortodossia dominante esige in questo
momento un’ammirazione acritica nei confronti della Russia
sovietica.
Tutti lo sanno, quasi tutti vi si adeguano. È pressoché proibito
criticare seriamente sulla stampa il regime sovietico o rivelare
fatti che il governo russo preferisce tenere nascosti. È abbastanza
curioso che questa cospirazione su scala nazionale per compiacere il
nostro alleato si verifichi in un ambito di autentica tolleranza
intellettuale. Non ci viene infatti permesso di criticare il governo
sovietico, mentre siamo ragionevolmente liberi di criticare il
nostro. Quasi
nessuno pubblicherebbe un attacco contro Stalin, ma non si rischia
niente attaccando Churchill,
almeno su libri e periodici. In questa guerra durata cinque anni, due
o tre dei quali li abbiamo trascorsi combattendo per la sopravvivenza
nazionale, sono stati pubblicati senza alcuna interferenza moltissimi
libri, opuscoli, articoli in cui si auspicava una pace di
compromesso. Non solo, ma la loro comparsa non ha suscitato molta
disapprovazione. Fintantoché non è stato coinvolto il prestigio
dell’URSS, il principio della libertà di parola è stato
ragionevolmente rispettato. Ci sono anche altri argomenti proibiti (e
alcuni li nominerò fra poco); ma il sintomo di gran lunga più grave
è l’atteggiamento predominante nei confronti dell’URSS, un
atteggiamento, per così dire, volontario, poiché non è dovuto
all’azione di alcun gruppo di pressione. Il servilismo con cui, a
partire dal 1941, la maggioranza degli intellettuali inglesi ha
ingollato e riproposto la propaganda russa sarebbe del tutto
stupefacente, se una cosa simile non fosse già accaduta in molte
altre occasioni. Su tutta una serie di questioni spinose, il
punto di vista della Russia è stato ripetutamente accettato senza
alcuna verifica, e poi diffuso con totale spregio della verità
storica e del pudore intellettuale. Un solo esempio: la BBC ha
celebrato i venticinquesimo anniversario dell’Armata Rossa senza
fare il minimo accenno a Trockij. Sarebbe stato altrettanto preciso
commemorare la battaglia di Trafalgar senza nominare Nelson;
ma questo non ha suscitato alcuna protesta da parte
dell’intelligencija inglese. Nelle lotte interne ai vari paesi
occupati, la stampa britannica si è schierata quasi senza eccezione
dalla parte delle fazioni sostenute dai russi, calunniando quelle
rivali e sopprimendo spesso a tal fine delle prove rilevanti.
Particolarmente vistoso è stato il caso del colonnello
Mihajloviæ,
leader cetnico della Jugoslavia. I russi, che avevano come protégé
jugoslavo
il maresciallo Tito, hanno accusato Mihajloviæ di collaborazionismo
con i tedeschi. L’accusa è stata immediatamente rilanciata sulla
stampa britannica: ai sostenitori di Mihajloviænon è stata concessa
alcuna possibilità di replica e i fatti che confutavano l’accusa
sono stati semplicemente espunti dalla carta stampata.
Nel
luglio del 1943 i tedeschi hanno offerto una taglia di 100.000 corone
d’oro per la cattura di Tito e una analoga per quella di
Mihajloviæ. La stampa britannica ha dato grande risalto alla taglia
sul primo, ma un solo giornale ha accennato (in caratteri minuscoli)
alla taglia sul secondo, e le accuse di collaborazionismo sono
proseguite. Fatti
molto simili a questi si sono verificati ai tempi della Guerra civile
spagnola. Anche allora le fazioni di parte repubblicana, che i russi
erano ben decisi a schiacciare, furono sconsideratamente calunniate
dalla stampa della sinistra britannica, che rifiutò di pubblicare,
fosse anche in forma di lettera, qualsiasi dichiarazione in loro
difesa.
In questo momento non solo si considera deplorevole criticare
seriamente l’URSS, ma in qualche caso si occulta il fatto che tali
critiche esistano. Per
esempio, Trockij aveva scritto una biografia di Stalin poco prima di
morire. Si può immaginare che il libro non fosse immune da
pregiudizi, ma ovviamente era vendibile. Un editore americano aveva
preso accordi per la pubblicazione e il volume era già in corso di
stampa (credo che fossero state inviate le copie-saggio per le
recensioni); ma poi la Russia è entrata in guerra e il libro è
stato immediatamente ritirato.
Su quest’episodio non è mai apparsa una parola sulla stampa
britannica, anche se l’esistenza di un libro del genere e la sua
soppressione erano chiaramente notizie degne almeno di un trafiletto.
E’ importante distinguere fra la censura che l’intelligencija
letteraria inglese s’impone volontariamente e quella che a volte
può essere imposta da gruppi di pressione. Si sa che di alcuni
argomenti non si può discutere per via di «interessi particolari».
Il caso più tristemente noto è il racket dei brevetti farmaceutici.
Ma anche la Chiesa cattolica, che ha una considerevole influenza
sulla stampa, può in qualche misura ridurre al silenzio le critiche
che le vengono rivolte. Uno scandalo che veda coinvolto un prete
cattolico non viene quasi mai pubblicizzato, mentre un prete
anglicano che si metta nei guai (si veda il caso del rettore di
Stiffkey)
diventa una notizia da prima pagina. È molto raro che un’opera di
tendenza anticattolica venga rappresentata a teatro o portata sullo
schermo. Qualsiasi attore può testimoniare come un’opera teatrale
o un film che attacchino o mettano in ridicolo la Chiesa cattolica
siano soggetti al boicottaggio della stampa e probabilmente destinati
al fallimento. Ma questa è una cosa innocua, o perlomeno
comprensibile. Ogni grande organizzazione difende meglio che può i
propri interessi, e non si può obiettare a una propaganda scoperta.
Non possiamo pretendere che il «Daily Worker» pubblichi fatti
sfavorevoli all’URSS, così come non possiamo pretendere che il
«Catholic Herald» denunci il Papa. Chi abbia un minimo di cervello
conosce però il «DailyWorker» e il «Catholic Herald» per quello
che sono. Il
fatto inquietante è che quando entrano in ballo l’URSS e le sue
varie linee politiche non c’è da attendersi una critica
intelligente (e, in molti casi, neppure la semplice onestà) da parte
di scrittori e giornalisti liberali che, anche senza bisogno di
pressioni dirette, snaturano le proprie opinioni. Stalin è sacro, e
certi aspetti della sua politica non vanno posti seriamente in
discussione. Questa regola viene osservata quasi universalmente a
partire dal 1941, ma era già in vigore, e in modo molto più esteso
di quanto a volte si creda, da una decina d’anni.
In quel periodo le critiche da
sinistra al
regime sovietico trovavano difficilmente ascolto. Scritti antirussi
se ne producevano in quantità, ma partivano quasi tutti da un punto
di vista conservatore ed erano manifestamente disonesti, superati e
dettati da motivazioni meschine. Dall’altra
parte c’era una fiumana, altrettanto enorme e quasi altrettanto
disonesta, di propaganda filosovietica, e in pratica si registrava un
boicottaggio verso chiunque tentasse di discutere in modo adulto
questioni della massima importanza. Indubbiamente era possibile
pubblicare libri antirussi, ma chi lo faceva poteva star certo che
quasi tutta la stampa intellettuale avrebbe ignorato o mistificato le
sue idee.
In pubblico e in privato vi ammonivano che «non
stava bene»
farlo.
Magari
quello che dicevate era vero, ma comunque «inopportuno» e in un
modo o nell’altro «faceva il gioco» dei reazionari.
Di solito si difendeva questo atteggiamento con la motivazione che il
quadro internazionale e la pressante necessità di un’alleanza
anglosovietica lo richiedevano: - ma questa era chiaramente una
razionalizzazione a posteriori. L’intelligencija inglese aveva,
almeno in gran parte, sviluppato una lealtà di tipo nazionalistico
nei confronti dell’URSS e avvertiva intimamente che insinuare il
minimo dubbio sulla saggezza di Stalin sarebbe stato come
bestemmiare. - Ciò
che avveniva in Russia andava giudicato con criteri differenti da ciò
che avveniva in altre nazioni. Le interminabili esecuzioni che ebbero
luogo durante le purghe del 1936-38 furono approvate da persone
contrarie da sempre alla pena capitale, e si considerò corretto dare
notizia delle carestie in India senza dire una parola su quelle che
si verificavano in Ucraina.
E se questo era vero prima della guerra, oggi l’atmosfera
intellettuale non è affatto migliorata.
Ma
torniamo al mio libro.
La reazione della maggior parte degli intellettuali inglesi nei suoi
confronti sarà molto semplice: - «Non
andava pubblicato».
Naturalmente, i recensori che conoscono l’arte della denigrazione
non lo attaccheranno su basi politiche bensì su basi letterarie.
Diranno
che si tratta di un libro monotono e stupido, di uno scandaloso
spreco di carta.
- Possono anche aver ragione, ma chiaramente questo è solo un
aspetto del problema. Non si dice che un libro «non
andava pubblicato»
solo perché brutto. In fin dei conti si stampano ogni giorno
quintali di porcherie e nessuno se ne preoccupa. Gli intellettuali
inglesi, almeno in buona parte avverseranno questo libro perché
diffama il loro Capo e perché (a loro avviso) nuoce alla causa del
progresso. Se facesse l’operazione opposta non troverebbero niente
da ridire, neppure se presentasse lacune letterarie dieci volte più
macroscopiche. Il
consenso che il Left Book Club riscosse per un periodo di quattro o
cinque anni è un esempio di come gli intellettuali siano disposti a
tollerare sia il linguaggio scurrile sia la scrittura sciatta pur di
sentirsi dire ciò che desiderano.
Il problema in discussione è molto semplice: «Qualsiasi
opinione, quantunque impopolare, quantunque (perché no?) stupida, ha
diritto d’udienza oppure no?».
Se presentate la questione in questi termini, quasi tutti gli
intellettuali inglesi sentiranno di dover rispondere
affermativamente. Ma se date alla domanda una forma concreta,
chiedendo: - «E
anche un attacco a Stalin ha diritto d’udienza?»,
la maggior parte delle risposte saranno negative. In questo caso,
infatti, si registra una sfida all’ortodossia corrente, e quindi il
principio della libertà di parola cessa di esistere. - Ora, quando
si pretende libertà di parola e di stampa non si sta chiedendo una
libertà assoluta. Un qualche grado di censura deve sempre esistere,
o almeno continuerà a esistere fintanto che ci saranno società
organizzate. Ma
la libertà, come ha detto Rosa Luxemburg, è «libertà per gli
altri».
È
lo stesso principio contenuto nelle celebri parole di Voltaire:
«Detesto ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto
di dirlo».
Ammesso che la libertà intellettuale, che è senza dubbio uno dei
segni distintivi della civiltà occidentale, abbia un significato,
tale significato è che chiunque deve avere il diritto di dire o
stampare ciò che ritiene vero, purché così facendo non danneggi
inequivocabilmente il resto della comunità. Fino a tempi recenti,
tanto la democrazia capitalista quanto le versioni occidentali del
socialismo hanno dato per scontato questo principio. Il nostro
governo, come già osservato, finge ancora abbastanza di rispettarlo.
L’uomo
della strada
– in parte, forse, perché non è interessato alle idee al punto di
divenire intollerante nei loro confronti – sostiene ancora
vagamente di ritenere che ciascuno abbia il diritto alle proprie
opinioni. Sono
soltanto, o comunque soprattutto, i membri dell’intelligencija
letteraria e scientifica quelli che cominciano a disprezzare, sia in
teoria che in pratica, quella libertà su cui proprio loro dovrebbero
vigilare.
Uno dei fenomeni peculiari del nostro tempo è quello del liberale
rinnegato. Oltre e al di là della nota asserzione marxista secondo
cui la «libertà borghese» è un’illusione, circola ora una
diffusa tendenza a sostenere che si possa difendere la democrazia con
metodi totalitari. Il ragionamento è questo: - se si ama la
democrazia bisogna schiacciarne i nemici con qualsiasi mezzo. - E chi
sono i nemici della democrazia? A quanto pare non sono coloro che
l’attaccano apertamente e scientemente ma quelli che la mettono
«oggettivamente» in pericolo diffondendo dottrine sbagliate. In
altre parole, la difesa della democrazia comporta la distruzione di
qualunque indipendenza di pensiero. Quest’argomento è stato usato,
per esempio, per giustificare le purghe in Russia.
Persino il filosovietico più accanito stentava a credere che tutte
le vittime fossero colpevoli di tutti i crimini che venivano loro
addossati: però avevano opinioni eretiche, quindi danneggiavano
«oggettivamente»
il regime, quindi
era giustissimo non solo massacrarle ma screditarle con false accuse.
Per giustificare le deliberate e reiterate menzogne che durante la
guerra di Spagna circolarono sulla stampa di sinistra contro i
trockijsti e altre minoranze repubblicane è stato usato lo stesso
argomento, successivamente rispolverato per sbraitare contro l’habeas
corpus
quando
nel 1943 Mosley è stato rimesso in libertà.
Molti
non capiscono che stanno incoraggiando metodi totalitari che un
giorno potrebbero essere usati contro di loro anziché a loro
vantaggio. Se imprigionare i fascisti senza processo diventa una
prassi normale, non è detto che la cosa continui a limitarsi ai
fascisti.
Subito dopo la fine della messa la bando del «Daily Worker»
ho
tenuto una conferenza a un corso per operai in un quartiere
meridionale di Londra. Il pubblico era costituito da intellettuali di
estrazione operaia e piccolo-borghese – lo stesso tipo di pubblico
che un tempo frequentava i circoli del Left Book Club. Nel
mio discorso avevo fatto cenno alla libertà di stampa, e, alla fine,
con mio grande stupore, molti dei presenti si alzarono e mi chiesero
se non pensassi anch’io che la revoca della messa al bando del
«Daily Worker» fosse un grave errore. Quando domandai perché,
risposero che era un giornale di dubbia lealtà e che non bisognava
permettere che uscisse in tempo di guerra. Mi trovai a difendere
proprio quel «Daily Worker» che a più riprese aveva fatto di tutto
per calunniarmi.
Ma
da chi avevano appreso i miei ascoltatori quel punto di vista
essenzialmente totalitario? Quasi certamente dagli stessi comunisti!
In Inghilterra la tolleranza e la rettitudine sono profondamente
radicate, ma non sono indistruttibili, e vanno tenute vive tramite
uno sforzo consapevole. Il risultato della predicazione di dottrine
totalitarie è un indebolimento di quell’istinto in virtù del
quale un popolo libero distingue ciò che è pericoloso da ciò che
non lo è. Il caso di Mosley lo dimostra. Nel 1940, era giustissimo
internare Mosley, a prescindere dal fatto tecnico che avesse commesso
o no dei crimini. Combattevamo per la sopravvivenza e non potevamo
tollerare che un potenziale collaborazionista circolasse liberamente.
Ma quel 1943, tenerlo in carcere senza processo era una cosa indegna.
È un brutto sintomo che a livello generale questo non sia stato
capito, anche se va detto che le agitazioni contro la liberazione di
Mosley erano in parte un pretesto per altri malcontenti, in parte
dettate da faziosità. Ma in che misura l’attuale slittamento verso
modi di pensiero fascisti è attribuibile all’«antifascismo»
degli ultimi dieci anni e alla mancanza di scrupoli che esso ha
implicato? È importante capire che l’attuale russomania non è che
un sintomo del generale indebolimento della tradizione liberale in
Occidente. Se il ministero dell’Informazione fosse intervenuto
apertamente e con forza per proibire la pubblicazione del mio libro,
la gran massa dell’intelligencija inglese non ci avrebbe trovato
niente di allarmante. La devozione acritica nei confronti dell’URSS
fa parte dell’ortodossia corrente, e quando entrano in gioco i
supposti interessi dell’Unione Sovietica gli intellettuali sono
disposti a tollerare non solo la censura ma anche la premeditata
falsificazione della storia.
Basterà
un esempio. Alla morte di John Reed, autore dei Dieci
giorni che sconvolsero il mondo,
testimonianza oculare dei primi giorni della Rivoluzione russa, il
copyright del libro passò, credo per disposizione dello stesso Reed,
nelle mani del Partito comunista britannico. Qualche anno dopo,
avendo distrutto quante più copie possibile dell’edizione
originale, i comunisti britannici pubblicarono il libro in una
versione rimaneggiata da cui avevano espunto gli accenni a Trockij e
l’introduzione scritta da Lenin.
Se in Gran Bretagna fosse ancora esistita un’intelligencija
radicale, una tale falsificazione sarebbe stata sbugiardata e
denunciata da ogni periodico letterario del paese.
Invece le proteste furono assai scarse, per non dire inesistenti. A
molti intellettuali inglesi la cosa parve del tutto naturale. Questa
tolleranza, per non dire questa pura e semplice disonestà, è molto
più importante del fatto che l’ammirazione per la Russia sia ora
tanto in voga.
È molto probabile che questa moda non duri a lungo. Per quanto ne
so, può anche darsi che quando questo libro verrà pubblicato, la
mia opinione sul regime sovietico sarà diventata quella corrente. Ma
il fatto in sé non significherebbe nulla: - cambiare un’ortodossia
con un’altra non è necessariamente un progresso. - Il
nemico è la mentalità da grammofono, e non conta che si sia
d’accordo o meno col disco che sta suonando al momento.
Conosco a menadito tutte le argomentazioni contro la libertà di
pensiero e parola, conosco i discorsi di chi sostiene che non può
esistere e di chi sostiene che non deve esistere. Rispondo
semplicemente che non mi convincono e che per quattrocento anni la
nostra civiltà si è fondata sul principio opposto. Da almeno dieci
anni io sono convinto che l’attuale regime sovietico costituisca
una realtà soprattutto negativa e rivendico il diritto di dirlo
nonostante l’URSS sia nostra alleata in una guerra che voglio che
vinciamo. Se dovessi citare un testo a giustificazione della scelta,
indicherei il verso di Milton:
Secondo
le note leggi dell’antica libertà.
La
parola antica
accentua
il fatto che la libertà intellettuale è una tradizione
profondamente radicata, senza la quale è improbabile che esisterebbe
la nostra cultura specificamente occidentale. È una tradizione alla
quale molti dei nostri intellettuali stanno visibilmente voltando le
spalle. Hanno accettato il principio secondo cui un libro deve essere
pubblicato o soppresso, esaltato o stroncato, non in base ai suoi
meriti ma a seconda dell’opportunità politica. E
altri, che pur non condividono questo modo di vedere, accondiscendono
per pura vigliaccheria. Si veda, per esempio, come i numerosi e
chiassosi pacifisti inglesi siano incapaci di far sentire la propria
voce contro il culto imperante del militarismo russo. Sostengono che
ogni violenza è un male (e infatti a ogni stadio della guerra ci
hanno incoraggiato ad arrenderci, o almeno a firmare una pace di
compromesso); ma quanti di loro hanno mai suggerito che la guerra è
un male anche se a combatterla è l’Armata Rossa?
A quanto pare i russi hanno il diritto di difendersi, mentre per noi
si tratterebbe di un peccato mortale. Questa contraddizione può
essere unicamente attribuita al pavido desiderio di mantenere buoni
rapporti con un’intelligencija il cui patriottismo è rivolto verso
l’URSS piuttosto che verso la Gran Bretagna.
So
che gli intellettuali britannici hanno molte ragioni per comportarsi
con tanta viltà e disonestà; anzi, conosco a memoria le loro
giustificazioni. Almeno però piantiamola con le baggianate sulla
difesa della libertà contro il fascismo.
Se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla
gente ciò che non vuol sentirsi dire. L’uomo della strada accetta
ancora vagamente tale dottrina e si comporta di conseguenza. Nel
nostro Paese
– non è lo stesso in tutti i Paesi: non
era così nella Francia repubblicana e non è così negli odierni
Stati Uniti
– sono
i liberali ad aver paura della libertà, e sono gli intellettuali a
voler infangare l’intelletto. È per attirare l’attenzione su
questo problema che ho scritto questa prefazione.
Il
testo è stato tratto dal libro - La fattoria degli animali –
di
George Orwell
edizioni
classici moderni, OSCAR MONDATORI, dell'omonima
casa
editrice.
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L'etichetta
marxista attaccata allo scrittore è in contraddizione col pensiero
orwelliano
di
Isacco Luongo
per
il Centro Studi Pace è Libertà
Dopo
aver letto alcuni testi di quest’autore, l'aver constatato a gran
meraviglia che viene annoverato ancora come scrittore marxista, mi
porta chiedermi alcune domande, difficilmente giustificabili dagli
omologatori di turno. Perché mi pare, che lo stesso scrittore abbia
fatto di tutto per liberarsi di questa scomoda etichetta, ma da
quello che appare, non mi sembra sia riuscito nonostante tutto a
staccarsi da tali epiteti, questo ovviamente accade in maniera più
grave più in Italia che all'estero. Così mi chiedo, un vescovo
cattolico se scrivesse un libro in cui il messìa è un porco, non
sarebbe una bestemmia? E questo vescovo se rimanesse convinto
oppositore di tutti i postulati e dei personaggi della chiesa,
potrebbe ancora conservare il ruolo di ministro della chiesa? E se
fosse un imam islamico a scrivere un libro dove si verificano i
medesimi accostamenti? Non succederebbe quello che è già successo
al vignettista danese Kurt
Westergaard? Certo la reazione islamica nei confronti di quelle
vignette e dell'autore può sembrare esagerata, e persino l'ex
Ministro Calderoli ha rischiato ad indossare quella maglietta con le
vignette che raffiguravano il messìa islamico con le sembianze di un
porco. Tuttavia, se queste suscitano indignazione, trovo che il
dissenso sia legittimo, magari sproporzionato, ma giustificato
dall'estremismo di certe culture. E se qualcuno dicesse dopo di
essersi vestito da grande opinionista, che Kurt Westergaard,
l'autore delle vignette nonostante tutto è musulmano? Chi ci
crederebbe? Eppoi quale comunità musulmana sarebbe disposta ad
accoglierlo nel gruppo? Specialmente se, lo stesso continuasse di
tanto in tanto a disegnarne di nuove, potebbe continuare a dire di
essere musulmano? Quest’argomento portato con i dovuti contrappesi
alla fede marxista, lascia quantomai sconcertati. Perché qualcuno
dice che George Orwell sia stato, da sempre marxista, e molti
sostengono che non abbia mai cambiato idea. Ma è stata proprio
questa mancanza di dubbi e questo eccessivo bisogno di ricorrere ad
etichette conformistiche, omologatrici e artificiali, che mi hanno
spinto a leggere i suoi libri con attenzione e pubblicare questo
documento. Mi sono chiesto esattamente come faceva l'autore del testo
originale, a cosa è dovuta ancora oggi tanta disonestà
intellettuale. Così mi son preso la briga di evidenziare le sue
parole in grassetto e di sottolineare alcuni brani che ritengo degni
di riflessione. Contestualizzando, l'autore invece di scrivere
romanzi anti-nazisti, oppure più genericamente parlando
anti-totalitari, stranamente scelse, in un momento cruciale, con un
coraggio da leone, proprio durante la seconda guerra mondiale, quando
ancora si sentiva su Londra l'eco dei botti del cannonismo nazista,
di prendere di mira l'alleato di allora, ovvero la Russia di Stalin.
Questo avvenne durante la stesura del romanzo, all'incirca agli inizi
del 1943. E
da quello che riporta il testo da lui stesso scritto, l'idea era
maturata almeno cinque anni prima di quella data. Chiaramente voglio ricordare che i personaggi del romanzo
rappresentano proprio quelli storici della rivoluzione comunista del
1917, e devo notare che l'autore con precisione certosina, non ha
fatto sconti proprio a nessuno. Ecco alcuni esempi:
Il
grande porco ideatore della rivoluzione “animalista” delle
bestie d'Inghilterra, detto “il Maggiore”, secondo lo scrittore
(George Orwell) ancora etichettato come “marxista”, rappresenta
proprio Karl Marx, che muore all'inizio del secondo capitolo,
quindi prima della rivoluzione capeggiata dai porci, appunto.
Napoleone
e Palla di neve, i due porcellini da sempre in disaccordo su tutto,
tranne che sulla pappa, risulterebbero ricalcare le caricature
rispettivamente di Stalin e Trozkij.
La
storia chiaramente è applicabile solo e soltanto alla prima
rivoluzione comunista ovvero quella del 1917, come si afferma anche
nelle prime parti di questo stesso testo.
L'intera
storia raccontata nel romanzo, che si presta bene per essere letta
anche ai bambini, non giova all'ideologia che caratterizza le
sinistre marxiste, e si conclude con un tale fallimento, che da sola
già basterebbe a convincere e scoraggiare chiunque intenda
intraprendere la strada dell'ideologia marxista. La stessa che vista
dall'autore come una sorta d'inganno, nel quale possono abboccarci
solo degli stolti facilmente lusingabili, e bisognosi d'illusioni
inconcludenti.
Ovviamente
tale romanzo che dipinge i comunisti come le bestie d'Inghilterra,
si trova tuttora nelle librerie impegnate, quelle più spostate a
sinistra, e chiaramente sugli scaffali dell'Ipercoop. Direbbe
qualcuno più di parte, ovviamente della parte opposta, pur di non
rinunciare ad un autore da strumentalizzare, si farebbero anche
chiamare porci questi sinistri.
Il
caso di Wikipedia, nella versione in lingua italiana, è un esempio
ancora più eclatante di quello che George Orwell definiva,
mistificazione delle idee, ad appannaggio delle masse incolte, di
quelle che non leggono molto e quindi non approfondiscono. E'
incredibile, quando si apre la pagina web e non appare nessun simbolo
che dica che le informazioni sono sbilanciate. Questa bilancia,
appare in altri argomenti ma non in questo caso. Così i soloni di
wikipedia sono tutti d'accordo e non ci sono controversie, George
Orwell è socialista, e anche marxista. Senza alcun tentennamento
Wikipedia riesce ad affermare quest'eresia con ricchezza di fonti e
di contenuti. Ma questo solo e soltanto nella versione in lingua
italiana. Rispetto a Wikipedia devo ammettere che la versione in
lingua polacca è decisamente più bilanciata di quella in lingua
italiana, inoltre i suoi romanzi non oltrepassavano la cortina di
ferro e non potevano essere letti da russi, ucraini, polacchi,
ungheresi e Cecoslovacchi, prima della caduta del muro nel '89. Eppoi non so se in Cina la censura consenta la lettura di questo
autore (ironicamente) “marxista”. Voglio dire che è marxista
solo per la versione italiana di Wikipedia, e giusto a titolo
d'esempio voglio riportare quello che scrive wikipedia (italiana), questo perché sia noto a tutti in che mani equilibrare e oneste
viene posta la nostra cultura. Tratto da Wikipedia nella versione in
lingua italiana:
Orwell
condusse sempre la sua attività letteraria in parallelo con quella
di giornalista e attivista politico. Era
e rimase sempre d'ispirazione marxista
ma la presa di coscienza, anche in seguito a tragiche esperienze
personali, delle contraddizioni e degli errori del comunismo
realizzato in Unione Sovietica sotto Stalin lo portarono a essere
antisovietico e antistalinista, scontrandosi così con una
consistente parte di sinistra europea.
Ovviamente
nessun anti-comunista avrebbe potuto mai scrivere una parodia così
dispregiativa dell'ideologia marxista che potesse competere con il
romanzo orwelliano, nessun oppositore al marxismo avrebbe potuto
disprezzare maggiormente tale ideologia più di quanto abbia fatto lo
stesso Orwell. E va oltremodo notato, che lo stesso autore a scanso
d'equivoci, sembra che abbia specificato bene il perché di tale
avversione al comunismo. E le ragioni dei massacri e delle purghe
comuniste specificamente riportate in questo testo sono argomenti
che vanno ben oltre le tragiche esperienze personali. Anzi, queste
ultime non vengono quasi mai menzionate, e per quel che ci è dato
sapere lo scrittore non volle mai rilasciare una biografia
autorizzata, però alle future generazioni dotate di grande senso
d'onestà intellettuale lasciò il suo romanzo come messaggio molto chiaro,
che attende di essere letto nella maniera giusta, ma questo è ancora
lontano dal divenire realtà.
E
una volta letti alcuni suoi romanzi, nonché i suoi carteggi che
ancora girano in rete e non solo in rete, non mi resta che prendere
le mie opportune e personali conclusioni. Ritengo in piena libertà
di coscienza, di posizionare il pensiero orwelliano maturo, come lui
stesso affermava, dal 1936 in una direzione diversa, che non era
quella dettata col megafono marxista. Così se mi permetto di
definirlo – un
pentito e un anti-comunista
– non credo di far dispiacere alla memoria e al messaggio che
l'autore con dovizia di particolari, e con appassionata abilità si è
premurato di tramandare a noi tutti. A tutto questo mi sento ancora
di aggiungere, che il suo equilibrio e la sua spiccata lealtà, non
gli consentirono trasformismi, però di una cosa possiamo essere
certi, difese a spada tratta l'idea di Winston
Churchill
che divenne Winston
Smith
nel suo ultimo capolavoro, dal titolo “1984”. anche in quel
romanzo Orwell si dimostra un tenace oppositore al socialismo, che
lui stesso chiamava, disprezzandolo – socing – nel romanzo. Ma
questa è un altra storia che merita un approfondimento che
esulerebbe dagli scopi di questo testo. E ricordiamo che, proprio
come lo stesso Winston Churchill, rimase convinto sostenitore di
quell'occidente che si trovava nell’area libera e sempre
all'esterno della cortina di ferro e del blocco comunista nei tempi
della guerra fredda. E nessuna persona dotata di buonsenso può
ancora collocare il suo contributo di libertà dal marxismo, come
entità conforme al marxismo stesso.
E
comunque voi lettori la pensiate in riguardo, seguendo le sue parole,
e la naturale espressione dello scrittore, non mi resta altro da
dire, solo una frase sulla quale riflettere:
«Nel
tempo dell'inganno universale dire la verità è un atto
rivoluzionario.»
George
Orwell
Un
grande scrittore anti-comunista
censurato
in tutti i paesi dell'est fino al 1989
ebbe
problemi persino in Inghilterra
Questo
perché era marxista lui?
Oppure
perché erano
marxisti
loro?